così sia direi.
e posso anche spuntare la casella essere buttato fuori da un locale fra le cose fatte.
ringrazio ogni mano, metaforicamente intesa, protesa verso di me ieri sera: siete il mio regalo più bello, tutti per dio.
conto i giorni che ci separano dal viaggio.
ora che siamo solo due esseri contigui, divisi da un muro capace di cambiare continuamente consistenza, di assottigliarsi e poi di nuovo ispessirsi senza una logica apparente.
questo è era il mio tributo personale ad un amore mancato e il tentativo di ridisegnare due entità che non si appartengono più, per quanto una di esse desideri desiderasse ancora il contrario.
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E venne il giorno dell’allucinazione, il giorno di Gesù Cristo con la clessidra in mano.
“Soffia sulla sabbia” diceva.
Aprii gli occhi e posai lo sguardo su un posacenere che ricordavo meno pieno. Misi a fuoco la solita crepa sulla parete di fianco al letto, scrutai i mozziconi sparsi sul ciglio del pavimento. Aprii gli occhi, scesi dal letto e riconobbi la stanza, anche questa volta, per fortuna.
“Non c’è più tempo, soffia sulla sabbia” ripeteva.
“Non posso, come faccio con il vetro che la tiene al riparo?” risposi.
E c’era la terra che tremava, le incertezze esistenziali che continuavano a nascondersi nei movimenti ancora pieni di sonno, una cartina che cadeva dal pacchetto, la pioggia che scrosciava sul davanzale e sulle ombre del palazzo, gli alberi che si affacciavano da fuori e salutavano alla mia finestra ma Lui continuava a girare e rigirare la clessidra.
Ne ingerii altri 20 grammi, tutto sommato una buona colazione, guardai l’attaccatura dei capelli allo specchio e la fronte che si alzava e salutava anche lei, – buongiorno, come stai? – diceva; tutte le mie parole erano ferme nella sua bocca al momento del congedo.
Così venne il giorno dell’allucinazione, l’ora del Cristo che aveva le fattezze di mio padre e non faceva che contare il tempo, e fermarlo, e poi osservarlo da vicino, e mescolarne ed invertirne i mesi, le stagioni, i minuti.
Decisi di uscire. Mi infilai gli stracci del giorno prima, allacciai a fatica le scarpe e varcai la soglia. Aveva smesso di piovere. Per strada il marciapiede giocava ad allungarsi a intermittenza sotto i miei piedi e a farmi scivolare continuamente sulla lucentezza del bagnato.
Vidi una donna anziana, sulla settantina. Faceva freddo, se ne stava tutta coperta nella morbida sciarpa.
“Quanti uomini hai amato?” le chiesi.
“Ho amato solo te, in mille uomini diversi” risposero le sue rughe.
La guardai meglio e allora presi a scappare, iniziai a correr via, perché in quelle sue pieghe della pelle c’era la vita, tutta intera, come mai l’avevo conosciuta, di mia madre, c’era la storia di ogni meretrice e di ogni santa, c’era Giulia, l’unica donna che avrei mai amato, c’era Maria, che aveva generato Lui che faceva la distribuzione degli istanti, c’era Eva che se la batteva con Maria per il titolo di madre dell’uomo, c’era Salomé con la sua grassa risata e la testa di Giovanni Battista in mano, c’era Elena, la sorella che non avevo mai avuto e di cui non ero mai stato geloso.
Fra le increspature di quel volto c’erano ogni donna in ogni tempo e in ogni luogo.
Ma più fuggivo e più le rughe della vecchia mi inseguivano. Più scappavo e più diventavo figlio di ciascuna di loro. Più andavo di fretta lungo la via e più ne ero anche l’ amante, e l’ uomo fedele e il fratello e il padre. La corsa sembrava l’unico modo per redimermi da un primordiale senso di colpa verso loro tutte, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Veloce attraversavo ogni parte del quartiere, ogni fottuta piazza e ogni bastardo angolo del territorio ma non c’era via di scampo o assoluzione.
Ero completamente fuori di me, o, cosa più probabile, totalmente dentro.
All’improvviso vidi una fontanella e mi fermai a bere un sorso, sperando di calmarmi e ritrovare un flusso naturale e più leggero di pensieri.
Lentamente, passo dopo passo, mente e corpo ancora tremolanti, ripresi un’andatura normale e con essa ogni intenzione punitiva tornava ai suoi livelli medi.
“Ora hai conosciuto la sofferenza e la passione del creato intero. Non moltiplicherai più i tuoi giorni e la tua discendenza come la sabbia, soffia!” ricomparve Cristo con la sua barba incolta, i guanti bucati e la clessidra fuori dalla tasca della giacca a costine che indossava con stile.
Continuai il mio percorso lungo la strada ed entrai in un bar.
Uno schermo accesso mandava immagini di un incendio in qualche posto lontano da quel freddo e quella pioggia di novembre; probabilmente si trattava di un telegiornale.
Mi lanciai su uno sgabello, biascicai qualcosa fra i denti e mi servirono un gin tonic.
Ammirai l’incendio riflesso nel vetro del bicchiere e gli strani giochi di luce calda che emetteva; dopo vari tentativi, finalmente riuscii ad afferrare il cocktail.
Mentre buttavo giù d’un fiato guardai con interesse la felice trasparenza del liquido. Accolsi l’evento come la garanzia della sua onestà. In quella situazione l’ etanolo sembrava l’unico ente reale che non mi avrebbe mai mentito. Pochi attimi dopo mi voltai verso il televisore e rivalutai completamente l’intuizione: un liquido che invece di spegnere le fiamme, come l’acqua, le alimenta, non poteva che essere un bugiardo.
Un tizio seduto al tavolo vicino venne a chiedermi una sigaretta. Avrà avuto vent’anni, carnagione scura, abbastanza in forma, mani grandi e sicure; un dionisio post-moderno intento anche lui a pasteggiare un po’ di alcool.
Nello schermo, nel frattempo, l’immagine continuava a bruciare.
“Non senti le grida che salgono?” chiedeva insistentemente insieme all’accendino.
“Quali grida? Da dove?” feci io.
“Da Sodoma” rispose.
“Sai indicarmi la strada?” domandai incuriosito mentre gli passavo il bic.
“Zolfo, sale e arsura. Poi non vi sarà più sementa né erba di sorta che vi cresca. Il cesso invece è in fondo a destra”, si accese la sua sigaretta e se ne andò.
Sentii il bisogno impellente di pisciare e seguii con calma il cammino. Rigorosamente, senza far uscire il piede dal confine delle singole mattonelle, mi trascinai oltre la porta del bagno. Appoggiato al muro, c’era il dionisio post-moderno con la sua aria di attesa. Ero completamente estasiato e rapito dalla sua bellezza. In una brevissima visione d’insieme compresi ed afferrai ogni più piccolo dettaglio della sua persona; decisi di baciarlo e da lì a poco arrivò l’orgasmo.
“Non cercare di amare chi non vuole, accontentati di una mistica delle piccole cose” cercò di rincuorarmi, sorridendo.
E allora iniziai a piangere, per la terra arsa e bruciata e non più fertile, per l’uva di Sodoma ormai avvelenata e piena di fumo, per il seme versato senza più alcuna speranza di vederne raccolti i frutti, per i frutti che invece io avevo deciso di ingerire e assimilare quella mattina e la sera precedente. Versai lacrime abbondanti per il suo e per il mio corpo caldo, per gli schermi accesi in ogni tempo e in ogni luogo, per il Cristo che insisteva con la sua clessidra, per l’alcool che, come tutti quelli che conoscevo, si era rivelato veramente per quello che era, per le verità che nessuno mi aveva mai raccontato prima, per una sigaretta in meno nel pacchetto, per la luce al neon del bagno che aveva assistito impotente a tutto questo.
Cercai di asciugarmi in volto, salutai il dionisio e finii dritto fuori dal bar.
Saranno state le sei, forse le sette del pomeriggio. La luce iniziava a cambiare e il riverbero del sole, presente nonostante le nuvole, ormai non era più visibile. Puntai il naso verso la distesa del cielo e provai una forte sensazione di benessere. In parte mi stava scendendo.
“Le acque sono state raccolte in un unico mare, non preoccuparti più! Soffia sulla sabbia” sussurrava ancora la Sua voce.
“Ma cosa sono quei granelli? E come posso attraversare con l’aria il vetro della clessidra?” deglutii con stanchezza.
“Ogni granello è l’uno che si risolve nel tutto e compie giri infiniti attorno a un punto, soffia e basta!” sentenziò Lui.
“E’ per questo che sono abitudinario e mi sento dipendente? Perché vivo nella certezza del ritorno?” domandai singhiozzando.
“Non sai che la ripetizione è anche fonte di piacere? Pensa all’atto sessuale! Avanti, soffia!” mi incitò.
“Voglio prima tornare a casa” risposi rassegnato.
Guardai gli alberi ormai sbiaditi lungo la strada che salutavano, cercai di dire loro addio e spiegare loro del mio inevitabile rientro.
Parlai alla natura della stupida e apparente logica consequenziale fra il momento del viaggio e quello del ritorno, di come l’uno potesse esistere solo nel riconoscimento dell’altro ma non sembrò comprendere le mie parole.
Arrivai al portone, infilai le chiavi nella toppa, feci i due soliti giri ed entraii.
Mi sfilai gli stracci del giorno prima, o di due giorni prima — ma ormai questo non aveva più alcuna importanza — e posai lo sguardo su un posacenere che ricordavo meno pieno. Misi a fuoco la solita crepa sulla parete di fianco al letto, scrutai i mozziconi sparsi sul ciglio del pavimento.
Riconobbi la stanza, anche questa volta, per fortuna e soffiai a lungo, con quanto più fiato avessi in corpo.
Cristo si passò una mano fra i capelli brillantinati e alla buon’ora decise di nascondere il tempo.
All’improvviso caddi in un sonno profondo, ma finalmente lucido.
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... era.
ora è solo riappropriazione di spazio.
non uno qualunque per giunta.
il mio. qui ed ora. bello esteso e credo interessante.
scritte bianche su sfondo nero. ma anche un po' di colore.
blu. come l'acqua.
perché niente si cancella, ma molto scorre.
e quello che resta è mio.
tondelli è mio.
gli smiths sono miei.
e i cccp anche.
specchio riflesso e chi vuole giocare con me metta il dito qua sotto.
tié.
ecco.
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© J. Saudek, Hungry For Your Touch, 1971
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insomma ci deve essere un dentro e un fuori
se accumulo lettere qui, da camere separate
se prendo e ti scrivo da un letto singolo
se non ho nessuno a cui mentire una buonanotte da una doppia qualsiasi
se ogni tanto ci sfioriamo lungo le pareti degli innumerevoli corridoi
finirà che prenderemo ricordi ed orizzonti
li rinchiuderemo in vecchie scatole
in attesa di tempi migliori
ognuna con la sua facile etichetta
rimarranno solamente amanti in affitto
ognuno per conto proprio
nessuna adiacenza
murature umide e ammuffite
stanze scarsamente arredate
cuori appoggiati su un qualunque guardrail
di nuovo in strada
sfrattati da qualche destino o santo minore
potremo chiudere porte
fare due mandate
cambiare serrature
ma che mi dici di avvitare le braccia attorno a se stessi
poi, tutto sommato, 17euro a testa in pieno quartiere latino è anche conveniente
due passi e siamo in centro
eppure non credo di sapere bene come dobbiamo muoverci
si entra o si esce?
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c'era una volta un muro.
in quanto confine aveva il ruolo di dividere due entità, innalzarsi a separare due spazi ravvicinati, due camere contigue. allo stesso tempo, come ogni soglia, costituiva anche il punto di contatto, la legittimazione dell'altra parete, il riconoscimento di ciò che si trovava al di là della superficie comunicante.
a un certo punto il muro è crollato.
non so dire bene se sia stato qualcuno ad abbatterlo o se sia svanito da solo, quasi smaterializzato. non solo non esisteva più qualcosa da dividere, ma soprattutto mi sono accorto che non era rimasto niente da unire. il fatto è che, neanche tanto inaspettatamente, nella mia camera scarsamente illuminata, sono state alzate le serrande e qualche raggio a caso ha deciso di spolverare il buio dagli occhi e farmi riappropriare della casa intera. è anche piacevole ora, col senno di poi, guardare come tutto sia in fondo bene arredato e decisamente più confortevole di prima. non mi manca più niente, di nuovo.
ho pensato molto se fosse giusto continuare a esprimermi attraverso questo luogo, o se fosse il caso di cambiare ancora una volta forma.
alla fine ho deciso di restare.
per quanto le camere separate non siano più altro - grazie al cielo - che un guscio semanticamente vuoto, un semplice significante privo di alcun contenuto, esse rappresentano prima di tutto la citazione di un romanzo, il riferimento a uno scrittore che ha lasciato dei segni indelebili sul mio corpo. segni che a breve, sono certo, qualcuno sarà anche in grado di leggere nella loro interezza. la descrizione del sito rimane anch'essa, come monito, a ricordarmi chi sono, quali sono stati i miei errori di valutazione, le mie ingenuità.
il gioco della seduzione, quasi sicuramente, è qualcosa che tutti possiamo imparare.
lo spessore, e non mi riferisco a muri questa volta, è più un attributo dato una volta per tutte: o si ha o non si ha. e se io non posso sindacare su me stesso voglio almeno potermi aggrappare alla consistenza, quella tangibile, quella palpabile, di chi mi sta intorno.
in attesa, come al solito.