domenica 14 ottobre 2007

raffreddore stagionale

dio dell'autunno, tu che una volta già mi hai fregato con settembre ed il suo trascinarsi, il verde ripassato dall'umidità, il vento a spolverare il vuoto fra i palazzi, la canzone del padre ascoltata ad un volume tale da fare eco nella cassa acustica fra le costole, le canne delle sei per godersi la luce che cambia e, in mezzo giro di lancette, trasfigura le cose e le persone, la costanza di scrivere ogni sogno la mattina ancora nel letto, e quell'odore di camino e vaga lontananza che si impregna sui vestiti insieme alla puzza di vecchio e di ritorno al banale quotidiano, dio dell'autunno, tu che una volta già mi hai fregato con tutte ste cazzate, il freddo e gli starnuti, scrosta via ogni residuo di abbronzatura dalla mia pelle, ridammi il buio triste ogni giorno in più largo anticipo, l'obbligo morale di dovermi divertire ogni sabato sera, le cene domenicali a base di gentilini e cioccolata, pensa tu a fare il cambio dei vestiti nell'armadio, trasforma gli omberelloni dell'estate in ombrelli da pioggia, violenta ed ingravida ogni nuvola ed acqua sia. poi vaglielo a dire che non ci sono aspirine che tengano, né dosi di birra sufficientemente curative, e che da una canzone come svegliami era possibile creare un immaginario molto più lungo di cinque brevi mesi. vaglielo a dire, dio dell'autunno, che il corpo amoroso è sempre un corpo bagnato, e che l'amore, come quello che scrivo, non è un esercizio di sintesi, ma qualcosa di totalmente narrativo e, abbandono dopo abbandono, ricalcando quello originario di mio padre, salirà sempre la sera e tornerà il momento delle favole.

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