giovedì 25 ottobre 2007

l'arte amatoria e quella psiconautica

E venne il giorno dell’allucinazione, il giorno di Gesù Cristo con la clessidra in mano.

“Soffia sulla sabbia” diceva.

Aprii gli occhi e posai lo sguardo su un posacenere che ricordavo meno pieno. Misi a fuoco la solita crepa sulla parete di fianco al letto, scrutai i mozziconi sparsi sul ciglio del pavimento. Aprii gli occhi, scesi dal letto e riconobbi la stanza, anche questa volta, per fortuna.

“Non c’è più tempo, soffia sulla sabbia” ripeteva.

“Non posso, come faccio con il vetro che la tiene al riparo?” risposi.

E c’era la terra che tremava, le incertezze esistenziali che continuavano a nascondersi nei movimenti ancora pieni di sonno, una cartina che cadeva dal pacchetto, la pioggia che scrosciava sul davanzale e sulle ombre del palazzo, gli alberi che si affacciavano da fuori e salutavano alla mia finestra ma Lui continuava a girare e rigirare la clessidra.

Ne ingerii altri 20 grammi, tutto sommato una buona colazione, guardai l’attaccatura dei capelli allo specchio e la fronte che si alzava e salutava anche lei, – buongiorno, come stai? – diceva; tutte le mie parole erano ferme nella sua bocca al momento del congedo.

Così venne il giorno dell’allucinazione, l’ora del Cristo che aveva le fattezze di mio padre e non faceva che contare il tempo, e fermarlo, e poi osservarlo da vicino, e mescolarne ed invertirne i mesi, le stagioni, i minuti.

Decisi di uscire. Mi infilai gli stracci del giorno prima, allacciai a fatica le scarpe e varcai la soglia. Aveva smesso di piovere. Per strada il marciapiede giocava ad allungarsi a intermittenza sotto i miei piedi e a farmi scivolare continuamente sulla lucentezza del bagnato.

Vidi una donna anziana, sulla settantina. Faceva freddo, se ne stava tutta coperta nella morbida sciarpa.

“Quanti uomini hai amato?” le chiesi.

“Ho amato solo te, in mille uomini diversi” risposero le sue rughe.

La guardai meglio e allora presi a scappare, iniziai a correr via, perché in quelle sue pieghe della pelle c’era la vita, tutta intera, come mai l’avevo conosciuta, di mia madre, c’era la storia di ogni meretrice e di ogni santa, c’era Giulia, l’unica donna che avrei mai amato, c’era Maria, che aveva generato Lui che faceva la distribuzione degli istanti, c’era Eva che se la batteva con Maria per il titolo di madre dell’uomo, c’era Salomé con la sua grassa risata e la testa di Giovanni Battista in mano, c’era Elena, la sorella che non avevo mai avuto e di cui non ero mai stato geloso.

Fra le increspature di quel volto c’erano ogni donna in ogni tempo e in ogni luogo.

Ma più fuggivo e più le rughe della vecchia mi inseguivano. Più scappavo e più diventavo figlio di ciascuna di loro. Più andavo di fretta lungo la via e più ne ero anche l’ amante, e l’ uomo fedele e il fratello e il padre. La corsa sembrava l’unico modo per redimermi da un primordiale senso di colpa verso loro tutte, in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Veloce attraversavo ogni parte del quartiere, ogni fottuta piazza e ogni bastardo angolo del territorio ma non c’era via di scampo o assoluzione.

Ero completamente fuori di me, o, cosa più probabile, totalmente dentro.

All’improvviso vidi una fontanella e mi fermai a bere un sorso, sperando di calmarmi e ritrovare un flusso naturale e più leggero di pensieri.

Lentamente, passo dopo passo, mente e corpo ancora tremolanti, ripresi un’andatura normale e con essa ogni intenzione punitiva tornava ai suoi livelli medi.

“Ora hai conosciuto la sofferenza e la passione del creato intero. Non moltiplicherai più i tuoi giorni e la tua discendenza come la sabbia, soffia!” ricomparve Cristo con la sua barba incolta, i guanti bucati e la clessidra fuori dalla tasca della giacca a costine che indossava con stile.

Continuai il mio percorso lungo la strada ed entrai in un bar.

Uno schermo accesso mandava immagini di un incendio in qualche posto lontano da quel freddo e quella pioggia di novembre; probabilmente si trattava di un telegiornale.

Mi lanciai su uno sgabello, biascicai qualcosa fra i denti e mi servirono un gin tonic.

Ammirai l’incendio riflesso nel vetro del bicchiere e gli strani giochi di luce calda che emetteva; dopo vari tentativi, finalmente riuscii ad afferrare il cocktail.

Mentre buttavo giù d’un fiato guardai con interesse la felice trasparenza del liquido. Accolsi l’evento come la garanzia della sua onestà. In quella situazione l’ etanolo sembrava l’unico ente reale che non mi avrebbe mai mentito. Pochi attimi dopo mi voltai verso il televisore e rivalutai completamente l’intuizione: un liquido che invece di spegnere le fiamme, come l’acqua, le alimenta, non poteva che essere un bugiardo.

Un tizio seduto al tavolo vicino venne a chiedermi una sigaretta. Avrà avuto vent’anni, carnagione scura, abbastanza in forma, mani grandi e sicure; un dionisio post-moderno intento anche lui a pasteggiare un po’ di alcool.

Nello schermo, nel frattempo, l’immagine continuava a bruciare.

“Non senti le grida che salgono?” chiedeva insistentemente insieme all’accendino.

“Quali grida? Da dove?” feci io.

“Da Sodoma” rispose.

“Sai indicarmi la strada?” domandai incuriosito mentre gli passavo il bic.

“Zolfo, sale e arsura. Poi non vi sarà più sementa né erba di sorta che vi cresca. Il cesso invece è in fondo a destra”, si accese la sua sigaretta e se ne andò.

Sentii il bisogno impellente di pisciare e seguii con calma il cammino. Rigorosamente, senza far uscire il piede dal confine delle singole mattonelle, mi trascinai oltre la porta del bagno. Appoggiato al muro, c’era il dionisio post-moderno con la sua aria di attesa. Ero completamente estasiato e rapito dalla sua bellezza. In una brevissima visione d’insieme compresi ed afferrai ogni più piccolo dettaglio della sua persona; decisi di baciarlo e da lì a poco arrivò l’orgasmo.

“Non cercare di amare chi non vuole, accontentati di una mistica delle piccole cose” cercò di rincuorarmi, sorridendo.

E allora iniziai a piangere, per la terra arsa e bruciata e non più fertile, per l’uva di Sodoma ormai avvelenata e piena di fumo, per il seme versato senza più alcuna speranza di vederne raccolti i frutti, per i frutti che invece io avevo deciso di ingerire e assimilare quella mattina e la sera precedente. Versai lacrime abbondanti per il suo e per il mio corpo caldo, per gli schermi accesi in ogni tempo e in ogni luogo, per il Cristo che insisteva con la sua clessidra, per l’alcool che, come tutti quelli che conoscevo, si era rivelato veramente per quello che era, per le verità che nessuno mi aveva mai raccontato prima, per una sigaretta in meno nel pacchetto, per la luce al neon del bagno che aveva assistito impotente a tutto questo.

Cercai di asciugarmi in volto, salutai il dionisio e finii dritto fuori dal bar.

Saranno state le sei, forse le sette del pomeriggio. La luce iniziava a cambiare e il riverbero del sole, presente nonostante le nuvole, ormai non era più visibile. Puntai il naso verso la distesa del cielo e provai una forte sensazione di benessere. In parte mi stava scendendo.

“Le acque sono state raccolte in un unico mare, non preoccuparti più! Soffia sulla sabbia” sussurrava ancora la Sua voce.

“Ma cosa sono quei granelli? E come posso attraversare con l’aria il vetro della clessidra?” deglutii con stanchezza.

“Ogni granello è l’uno che si risolve nel tutto e compie giri infiniti attorno a un punto, soffia e basta!” sentenziò Lui.

“E’ per questo che sono abitudinario e mi sento dipendente? Perché vivo nella certezza del ritorno?” domandai singhiozzando.

“Non sai che la ripetizione è anche fonte di piacere? Pensa all’atto sessuale! Avanti, soffia!” mi incitò.

“Voglio prima tornare a casa” risposi rassegnato.

Guardai gli alberi ormai sbiaditi lungo la strada che salutavano, cercai di dire loro addio e spiegare loro del mio inevitabile rientro.

Parlai alla natura della stupida e apparente logica consequenziale fra il momento del viaggio e quello del ritorno, di come l’uno potesse esistere solo nel riconoscimento dell’altro ma non sembrò comprendere le mie parole.

Arrivai al portone, infilai le chiavi nella toppa, feci i due soliti giri ed entraii.

Mi sfilai gli stracci del giorno prima, o di due giorni prima ‏— ma ormai questo non aveva più alcuna importanza ‏— e posai lo sguardo su un posacenere che ricordavo meno pieno. Misi a fuoco la solita crepa sulla parete di fianco al letto, scrutai i mozziconi sparsi sul ciglio del pavimento.

Riconobbi la stanza, anche questa volta, per fortuna e soffiai a lungo, con quanto più fiato avessi in corpo.

Cristo si passò una mano fra i capelli brillantinati e alla buon’ora decise di nascondere il tempo.

All’improvviso caddi in un sonno profondo, ma finalmente lucido.

sabato 20 ottobre 2007

ho ripreso a fumare per smettere con te

[20.44.37] xxxxx: forse anche i nostri di arcobaleni hanno colori che non sappiamo
[20.45.17] onironauta: sai, è probabile, ma devo trovare gli occhiali giusti per vederli
[20.45.40] xxxxx: ma non li vedresti lo stesso
[20.46.54] onironauta: la soluzione?
[20.47.12] xxxxx: accontentarci dei colori che abbiamo credo...
[20.47.25] xxxxx: oppure drogarsi fino a vederne altri...:Dù

giovedì 18 ottobre 2007

passato e intralcio

no perché ecco, se solo tu potessi vedermi ora.
dentro per dio. che mi sa che di me non ci hai mai capito un cazzo.
e poi ti avevo chiesto di svegliarmi, non di attaccarmi la tua sindrome da orari sballati e sonno perenne. senza allargamento nel sogno, fra l'altro.


domenica 14 ottobre 2007

raffreddore stagionale

dio dell'autunno, tu che una volta già mi hai fregato con settembre ed il suo trascinarsi, il verde ripassato dall'umidità, il vento a spolverare il vuoto fra i palazzi, la canzone del padre ascoltata ad un volume tale da fare eco nella cassa acustica fra le costole, le canne delle sei per godersi la luce che cambia e, in mezzo giro di lancette, trasfigura le cose e le persone, la costanza di scrivere ogni sogno la mattina ancora nel letto, e quell'odore di camino e vaga lontananza che si impregna sui vestiti insieme alla puzza di vecchio e di ritorno al banale quotidiano, dio dell'autunno, tu che una volta già mi hai fregato con tutte ste cazzate, il freddo e gli starnuti, scrosta via ogni residuo di abbronzatura dalla mia pelle, ridammi il buio triste ogni giorno in più largo anticipo, l'obbligo morale di dovermi divertire ogni sabato sera, le cene domenicali a base di gentilini e cioccolata, pensa tu a fare il cambio dei vestiti nell'armadio, trasforma gli omberelloni dell'estate in ombrelli da pioggia, violenta ed ingravida ogni nuvola ed acqua sia. poi vaglielo a dire che non ci sono aspirine che tengano, né dosi di birra sufficientemente curative, e che da una canzone come svegliami era possibile creare un immaginario molto più lungo di cinque brevi mesi. vaglielo a dire, dio dell'autunno, che il corpo amoroso è sempre un corpo bagnato, e che l'amore, come quello che scrivo, non è un esercizio di sintesi, ma qualcosa di totalmente narrativo e, abbandono dopo abbandono, ricalcando quello originario di mio padre, salirà sempre la sera e tornerà il momento delle favole.

giovedì 4 ottobre 2007

sogno tzigano

martedì 2 ottobre 2007

2h06 qualcosa non torna chiedo silenzio canne e poesia